di Paolo Moiola
Domenica 6 dicembre si sono recati alle urne per eleggere i 277 deputati dell’Assemblea nazionale soltanto 5,3 milioni di venezuelani, pari al 31 per cento degli aventi diritto (20,7 milioni). Troppo pochi. A questo punto, Nicolás Maduro, presidente del paese dal 2013, dovrebbe lasciare da parte i toni trionfalistici (la sua coalizione – denominata Gran Polo Patriótico – si è imposta con il 68 per cento dei suffragi) e cercare seriamente una soluzione politica. Che non è facile, in primis a causa di un’opposizione divisa e rappresentata da un personaggio inconsistente come Juan Guaidó, capo dell’Assemblea in scadenza e «presidente» autoproclamato, più interessato ad apparire sui media internazionali che a fare proposte percorribili. L’evento elettorale del 6 dicembre s’inserisce in una situazione generale particolarmente difficile e complessa per il paese latinoamericano.
L’embargo commerciale e finanziario degli Stati Uniti contro il Venezuela risale al 2015, durante la presidenza di Barack Obama, ma è stato inasprito da Donald Trump nel 2017 (agosto) e poi ancora nel 2019 (gennaio), divenendo durissimo. Le sue conseguenze ricadono, come avviene per tutti gli embarghi, non sui governanti ma sulla popolazione governata. Una sorta di «punizione collettiva», ha scritto il rapporto del Center for Economic and Policy Research (Washington, aprile 2019). «Le sofferenze imposte alle popolazioni dei Paesi colpiti dall’embargo, senza che le classi dirigenti siano colpite, rende dubbia l’efficacia del metodo così come il suo fondamento etico. Le privazioni provocano inoltre l’estendersi di pratiche illegali e di corruzione. […] In materia di sanzioni economiche, il fine non giustifica i mezzi» (Caritas italiana, 2002). Oggi, in Venezuela, scarseggiano cibo, medicinali, attrezzature sanitarie, beni strumentali, materiali per manutenzioni e riparazioni. A causa delle privazioni tra i 4 e i 5 milioni di venezuelani – compresi migliaia d’indigeni Warao – hanno abbandonato il paese.
In queste condizioni, è stato gioco facile per il presidente Maduro e il suo governo far approvare, lo scorso ottobre, una «legge anti embargo per lo sviluppo e i diritti dei venezuelani» (Ley Antibloqueo para el Desarrollo Nacional y la Garantía de los Derechos Humanos de los venezolanos), che attribuisce all’esecutivo poteri straordinari.
Al momento pare improbabile che Joe Biden, nuovo presidente degli Stati Uniti, cambi atteggiamento nei confronti di Caracas. Potrebbe però alleggerire le sanzioni per motivi umanitari, magari allargando le maglie sulla questione petrolifera.
Secondo i dati dell’Opec, l’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio, a luglio 2020 in Venezuela l’estrazione di greggio arrivava a 742 mila barili al giorno, la metà di quelli del 2018 e quasi un terzo di quelli del 2017. Le entrate provenienti dalle esportazioni sarebbero passate da 90.000 milioni di dollari all’anno agli attuali 2.300 milioni (The New York Times, 7 ottobre 2020). Pdvsa, la compagnia petrolifera statale, un tempo potente, sembra essere alle corde. Il tutto disegna un declino apparentemente inarrestabile per un paese che possiede le maggiori riserve di petrolio del mondo, precedendo (e di molto) addirittura l’Arabia Saudita, stando alle stime della Cia.
A parte questi numeri, drammatici per l’economia del paese, in Venezuela non si trova petrolio raffinato (carburanti, solventi, lubrificanti, eccetera), come testimoniano le lunghissime file di automobili ai distributori di benzina. La raffinazione interna, da sempre complicata a causa dell’insufficienza degli impianti nazionali, dopo l’embargo Usa si è praticamente azzerata. L’unico paese che, sfidando Washington, è andato in soccorso di Caracas è stato l’Iran (anch’esso sottoposto ad embargo Usa), che ha inviato flotte di petroliere cariche di gasolio. Non va dimenticato che, in base al principio Usa denominato «secondary sanctions», le compagnie di paesi terzi (anche alleati) che commercino con il paese sottoposto ad embargo sono, a loro volta, sanzionate da Washington. Ne sa qualcosa, ad esempio, la multinazionale italiana Eni costretta ad adeguarsi ai diktat statunitensi sia in Iran che in Venezuela.
Altri alleati vitali per Maduro sono la Russia e la Cina: la prima è fornitrice di medicinali, ivi compreso il vaccino anti-Covid 19 («Sputnik V»); la seconda ha concesso varie linee di credito, ripagate con circa 300 mila barili di petrolio venezuelano al giorno. Con Cuba, storico alleato sottoposto a un lunghissimo embargo da parte degli Usa, la relazione è petrolio in cambio di personale medico. In Venezuela, lavorano oltre 20 mila operatori sanitari cubani tra medici, infermieri, dentisti e tecnici.
Per completare la panoramica geopolitica, manca l’Unione europea. Dal 2017 la Ue applica a Caracas sanzioni cosiddette «mirate» (riguardano armi, equipaggiamenti di polizia e conti bancari di pubblici ufficiali) – appena rinnovate fino al novembre 2021 -, ma si tratta di decisioni prese più per non irritare gli Stati Uniti che per reale convinzione. Ulteriore, evidente dimostrazione di quanto irrilevante sia la politica estera europea.
Tornando ai protagonisti interni, ci si chiede cosa farà l’opposizione, dopo aver perso – in seguito alle elezioni di domenica 6 – la guida dell’Assemblea nazionale. La Mesa de la Unidad Democrática (Mud, in sigla), che raccoglieva gran parte dei partiti oppositori, si è sfaldata soprattutto a causa delle liti tra i suoi aderenti: Henrique Capriles, Leopoldo López, Antonio Ledezma, Maria Corina Machado e il citato Juan Guaidó. Quest’ultimo ha promosso una consultazione popolare virtuale con tre quesiti: sul disconoscimento delle elezioni del 6 dicembre e la conseguente proroga dell’attuale Assemblea, sulla richiesta di nuove elezioni presidenziali e sull’aiuto della comunità internazionale. I risultati dell’iniziativa sono scontati come anche il riscontro mediatico internazionale, ma la sua attendibilità è tutta da dimostrare.
Altra soggetto importante nel puzzle venezuelano è la Chiesa cattolica, che si è mostrata coerente con il suo passato: a fianco dell’opposizione e contro il governo in carica, come fa dai tempi di Hugo Chávez (quando partecipò anche al golpe dell’aprile 2002). Nei suoi comunicati del 15 ottobre e del 30 novembre, la Conferenza episcopale del paese aveva dichiarato che l’evento elettorale del 6 dicembre «lontano dal contribuire alla soluzione democratica della situazione politica che oggi viviamo, va ad aggravarla e non aiuterà a risolvere i veri problemi della gente». Insomma, dai vescovi venezuelani toni ultimativi e nessuna apertura al dialogo, salvo poi citare, nel secondo comunicato, la «Fratelli tutti», l’ultima enciclica di papa Francesco.
Paolo Moiola
Pubblicazione / data: «l’ADIGE» (10 dicembre 2020)