di Paolo Moiola
Lo scorso mese di aprile l’Amazzonia brasiliana ha perso 405,61 chilometri quadrati di foresta, segnando un incremento del 64% rispetto allo stesso mese dell’anno passato (dati ufficiali Inpe-sistema Deter). Per intenderci, è come se venissero (quasi) rasi al suolo il parco di Paneveggio e quello di Fanes Sennes Braies. E lo fossero in un arco temporale di soli 30 giorni.
L’Amazzonia si estende su nove stati sudamericani, ma il 65% di essa appartiene al Brasile, oggi governato da Jair Messias Bolsonaro, già capitano dell’esercito e parlamentare. Nel 2019, primo anno della sua presidenza, il disboscamento (ufficiale) del bioma amazzonico è stato di 9.165,61 chilometri quadrati, vale a dire l’85,3% in più del 2018. Dati sconvolgenti, ma prevedibili nell’era Bolsonaro, giustamente soprannominato il Trump brasiliano.
Da sempre, il capitano Bolsonaro non considera l’Amazzonia un patrimonio comune dell’umanità. Lo ha detto chiaramente davanti all’assemblea delle Nazioni Unite (a settembre 2019, dopo mesi di incendi forestali estesissimi e devastanti) e lo ha ribadito lo scorso febbraio a papa Francesco il quale, in occasione della presentazione dell’esortazione apostolica «Querida Amazonia», si era azzardato a dire che essa «è anche “nostra”».
Il capitano Bolsonaro e i popoli indigeni
Il fatto poi che l’Amazzonia sia abitata anche dai popoli indigeni, veri legittimi proprietari di essa, è una circostanza irrilevante per il presidente brasiliano, che infatti li ha sempre disprezzati con frasi del tipo: «troppa terra per poche persone»; «gli indigeni nelle riserve sono come animali nei giardini zoologici».
Secondo i dati dell’Instituto socioambiental (Isa), il 23% dell’Amazzonia brasiliana appartiene ai popoli indigeni, perché non può esistere un popolo indigeno senza la propria terra. Ricordando, peraltro, che molti di essi (in totale, i popoli sono circa 300 più quelli cosiddetti incontattati) ne sono ancora privi, in aperta violazione con quanto stabilito dall’articolo 231 della Costituzione brasiliana del 1988.
Se quello del rispetto dei diritti territoriali dei popoli indigeni è il problema dei problemi, oggi ad esso si è aggiunto quello contingente, dovuto alla crisi epidemiologica. Al 27 maggio, si contavano 1.350 contagiati dal virus, 147 indigeni deceduti e 71 popoli interessati (dati Apib-Sesai).
A prima vista sembrerebbero numeri assoluti esigui (per l’intero Brasile, sono invece drammatici con 392 mila contagiati e 25 mila morti, secondo i dati ufficiali Sus), ma il tasso di letalità risulta molto alto (quasi il 10%). La verità è che, dietro queste cifre, si celano grandi preoccupazioni. La diffusione del Sars-CoV-2 tra i popoli indigeni potrebbe infatti tradursi in un vero genocidio e ciò per motivi ben precisi. In primo luogo, le aree indigene non sono attrezzate per affrontare emergenze sanitarie di alcun tipo, figuriamoci se lo sono per il nuovo coronavirus. Tuttavia, la peculiarità dei popoli indigeni si riferisce alla loro vulnerabilità. Dopo uno studio pubblicato da Nature (8 aprile 2015), anche la rivista Science, nel suo numero del 17 aprile scorso, ha confermato che i popoli indigeni hanno una maggiore vulnerabilità ad alcune patologie rispetto ai Bianchi (si parla di «virgin soil epidemics»).
Il caso degli Yanomami
Non occorre però cercare conferme in pubblicazioni scientifiche, è sufficiente parlare con qualche missionario cattolico o fare riferimento all’archivio del Cimi (il Consiglio indigenista missionario, organizzazione sotto pesante attacco da parte del capitano Bolsonaro).
Prendiamo il caso degli Yanomami, un popolo dell’Amazzonia che vive sui due lati della frontiera tra Brasile e Venezuela. In Brasile, essi occupano la cosiddetta «Terra indigena Yanomami» (Tiy), che si estende negli stati di Amazonas e Roraima per un totale di oltre 96mila chilometri quadrati. La Tiy ospita circa 26mila Yanomami (e Ye’kuana) organizzati in 321 aldeias (comunità).
Tra il 1973 e il 1977 varie di queste comunità furono decimate dalle epidemie di morbillo. Il virus del morbillo era stato portato dagli operai della Br 210 – o Perimetrale Nord -, la strada che avrebbe dovuto attraversare le terre degli Yanomami. Un’opera devastante dal punto di vista umano e ambientale, opera voluta dall’allora governo militare che, per fortuna, non fu mai portata a termine.
Detto questo, la domanda da farsi è: il virus Sars-CoV-2 com’è arrivato in foresta o comunque in luoghi isolati? Come per la strada Br 210, anche questa epidemia è arrivata (e arriva) a causa delle invasioni dei territori indigeni da parte di vari soggetti non-indigeni, che hanno trovato nel capitano Bolsonaro un formidabile alleato.
Gli invasori: garimpeiros, fazendeiros, madeireiros
Per essere sintetici, diciamo che ci sono tre tipologie di invasori, che tutti noi dovremmo sempre avere in testa quando si parla di Amazzonia e di popoli indigeni: i garimpeiros, i fazendeiros e i madeireiros.
I garimpeiros sono i minatori, in particolare i cercatori d’oro (ricordatevi di questo se andrete in gioielleria) che stanno devastando i fiumi amazzonici, soprattutto nella terra degli Yanomami (Brasile e Venezuela), ma anche nell’Amazzonia peruviana (dipartimento di Madre de Dios). I fazendeiros sono i latifondisti i quali, non contenti della (troppa) terra che già possiedono, vorrebbero, anzi vogliono anche quella dei popoli indigeni (spesso falsificando pure i documenti della proprietà fondiaria attraverso un consolidato sistema conosciuto come «grilagem de terras»). I latifondisti vogliono sempre più terra sostanzialmente per due motivi, entrambi devastanti per l’Amazzonia: allevare vacche (come se gli attuali 230 milioni di capi non fossero sufficienti) e coltivare soia (quasi tutta transgenica). Infine, ci sono i madeireiros ovvero i boscaioli che disboscano senza criterio per vendere il pregiato legno delle foreste amazzoniche.
Insomma, i problemi dell’Amazzonia e dei suoi popoli, iniziati con la Conquista europea (dal 1492 in poi), non sono mai terminati. Oggi, con la presidenza del capitano Jair Messias Bolsonaro (il Trump del Brasile) e l’arrivo del nuovo coronavirus, la situazione sta precipitando.
Alla prossima emergenza
Vogliamo chiudere questa breve disamina citando proprio uno scrittore e attivista indigeno, Ailton Alves Lacerda Krenak (dove Krenak indica il popolo indigeno d’appartenenza, residente per lo più nello stato di Minas Gerais, nel sud est del Brasile): «Da molto tempo – scrive in O amanhã não está à venda (Companhia Das Letras, 2020) -, la mia comunione con tutto ciò che viene chiamata natura è un’esperienza che non vedo valorizzata da tanta gente che vive in città. Ho visto persone ridicolizzarci: “Quello parla con un albero, lo abbraccia, si rivolge al fiume, contempla la montagna”. Come se tutto ciò fosse una specie di alienazione. Questa è la mia esperienza di vita. Se si tratta di alienazione, allora io sono alienato».
Le riflessioni di Krenak ci suggeriscono che la diversità è un valore aggiunto dell’uomo e non un handicap da combattere, da nascondere oppure – e questo può essere anche peggio – da omologare a noi e alla nostra visione sia dell’esistenza che delle cose del mondo.
Strade diverse, percorsi nuovi. E tuttavia – è ingenuo nascondercelo – sarà molto difficile trasformare sogni e parole in fatti visibili e concreti. Anzi, è molto probabile che, a fine pandemia, il mondo tornerà alle pratiche di prima, negando o sottovalutando l’emergenza climatica, distruggendo le foreste e la biodiversità, affidandosi a leader incapaci di vedere oltre il proprio tornaconto elettorale o di potere. Almeno fino all’arrivo della prossima crisi ambientale o del prossimo virus.
Paolo Moiola
Pubblicazione / date:
«l’ADIGE», 21 maggio 2020; «ALTO ADIGE», 22 maggio 2020.