Ed ora anche al buio. Quasi non bastassero i problemi esistenti – mancanza di alimenti e medicine, iperinflazione, pressione statunitense e ostracismo di molti paesi occidentali – nei giorni scorsi il Venezuela è rimasto anche al buio. Dal pomeriggio di giovedì 7 marzo a mezzogiorno di venerdì 8 e ancora – a zone e a singhiozzo – da sabato 9 a lunedì 11 Caracas e quasi tutto il paese sono rimasti senza energia elettrica a causa del blocco della grande centrale idroelettrica di Guri (stato Bolívar), che rifornisce l’80 per cento del Venezuela. Il presidente Nicolás Maduro ha accusato di sabotaggio (al sistema informatico di controllo della centrale) gli Stati Uniti. Il segretario di Stato Usa Mike Pompeo ha subito twittato: «No food. No medicine. Now, no power. Next, no Maduro» (Niente cibo, niente medicine. Ora niente elettricità. Il prossimo passo, niente Maduro). Juan Guaidó, il presidente autoproclamato, rientrato a Caracas lunedì 4, non è stato da meno: «Para que cese la oscuridad, debe cesar la usurpación» (Affinché termini l’oscurità, deve cessare l’usurpazione).
Tornata la luce (del sole), sabato 9 sono tornate – per fortuna in zone diverse della capitale – anche le manifestazioni di piazza. Una di Guaidó e una filogovernativa, entrambe molto partecipate, ma quella dell’opposizione con più rilievo a livello mediatico internazionale. L’oscurità ha anche portato saccheggi di negozi e centri commerciali in alcune città, ma meno di quanto fosse prevedibile in condizioni tanto critiche.
Poco prima di questi eventi, abbiamo parlato con un esponente del governo venezuelano, il ministro della cultura Ernesto Villegas Poljak. Villegas, 48 anni, ha alle spalle una lusinghiera carriera giornalistica, sia nella televisione pubblica «Venezolana de Televisión» (VTV) che nella carta stampata.
Ministro Villegas, chi è questo giovane di 35 anni che è comparso dal nulla e che si è autoproclamato presidente?
«Due mesi fa solo la sua famiglia e pochi conoscevano il nome di quell’uomo. Oggi Mr. Trump lo ha reso famoso scegliendolo come suo fantoccio per un intervento straniero in Venezuela. Anche quelli che – per riflesso condizionato – gli hanno dato il loro appoggio non lo conoscono. Nessuno sa cosa pensa, né la sua carriera. Nessuno gli ha chiesto, né lui ha esposto le sue opinioni sulle questioni fondamentali su cui ogni candidato alla presidenza di qualsiasi paese del mondo definisce la propria posizione. È, semplicemente, una pedina di terza fila nell’elenco della destra venezuelana, una pedina usa e getta. Di lui il Venezuela ha conosciuto prima – e qui mi scuso con chi leggerà quest’intervista, ma non esagero – il suo sedere all’aria (il ministro si riferisce a foto di Guaidó con i pantaloni abbassati scattate durante manifestazioni del 2014, ndr), prima di poter ascoltare una sua frase o di qualche suo suggeritore».
Dunque, secondo lei, dietro Guaidó non c’è l’opposizione venezuelana, ma direttamente Trump?
«Questa domanda va formulata meglio. Davanti a Guaidó c’è Trump. Come ha detto il nostro cancelliere, Jorge Arreaza, questa è la prima volta che gli Stati Uniti non sono dietro un colpo di stato, ma davanti. Trump e la sua cerchia di fanatici dell’estrema destra hanno spodestato senza troppe cerimonie i portavoce dell’opposizione venezuelana, di tutte le parti, che ora apprendono dalla Tv e da Twitter le decisioni di Trump sul Venezuela, la sua politica e il suo petrolio, attraverso Pence, Pompeo, Bolton, Abrams o Marco Rubio. Praticamente non ricevono nemmeno istruzioni. L’impero ha deciso di metterli da parte e operare direttamente in Venezuela».
Ministro, lei come spiega la gravissima crisi economica del suo paese?
«Al di là della propaganda neoliberale, che in maniera interessata riduce il caso venezuelano al “fallimento del socialismo”, il Venezuela ha caratteristiche complesse che non possono essere valutate soltanto in un’ottica economicista. Molto prima dell’arrivo di Chávez al potere, gli studiosi neoliberisti pubblicarono studi, come quello famoso intitolato “Il caso Venezuela: un’illusione di armonia” (di Moises Naim e Ramon Pinago, uscito nel 1984, ndr), in cui mettevano in discussione il modello preesistente. Il Venezuela è stato il luogo in cui l’FMI testò il suo pacchetto di aggiustamenti strutturali durante il secondo governo di Carlos Andrés Pérez, che portò come conseguenza la rivolta sociale del 27 febbraio 1989 – conosciuta come El Caracazo – e poi la ribellione militare del 4 febbraio 1992, guidata dal comandante Hugo Chávez (che finì in carcere, ndr). Con ciò voglio dire che le complessità dell’economia venezuelana sono molto anteriori alla Rivoluzione Bolivariana, la quale ha dovuto affrontare molte difficoltà nella ricerca di giustizia sociale, indipendenza e diversificazione economica. A volte lo ha fatto con successo, altre volte no».
Lei, pertanto, nega che l’attuale crisi economica si sia prodotta a causa di errori compiuti dal governo Maduro?
«Errori? Sicuramente molti, come fanno errori tutti i governi del mondo, incluso il Vaticano, che dovrebbe essere benedetto in modo particolare da Dio».
Se la mettiamo su questo piano, allora anche il Venezuela è benedetto, pensando a tutte le risorse di cui dispone (o disporrebbe).
«Abbiamo una benedizione che a volte opera come una maledizione, il petrolio. Abbiamo come vicino di casa il principale esportatore di cocaina nel mondo, la Colombia, la cui economia storicamente è stata parassita della nostra. Non c’è dubbio che il comandante Chávez iniziò la costruzione di un modello alternativo, il “socialismo bolivariano”, appena abbozzato, e il presidente Nicolás Maduro ha proseguito i suoi sforzi, ma nel sistema economico venezuelano sono rimaste le debolezze e le complessità storiche di un’economia capitalistica periferica, rentier (di rendita), importatrice e dunque dipendente».
Fa impressione il livello stratosferico raggiunto dal tasso d’inflazione.
«Il blocco e la persecuzione economica hanno colpito duramente la nostra popolazione, portando l’iperinflazione, le difficoltà per l’importazione di medicinali e cibo, gli input industriali e le materie prime, l’accesso al credito internazionale e l’ostruzione di qualsiasi transazione finanziaria. Più recentemente hanno congelato beni e fondi del Venezuela per miliardi di dollari, tra cui beni di PDVSA e CITGO (compagnia petrolifera con base in Texas posseduta dal 1990 da PDVSA, ndr) negli Stati Uniti e riserve auree depositate a Londra. Se prima era relativamente mascherata, la guerra che gli Stati Uniti e i suoi alleati hanno dichiarato all’economia venezuelana è ora completamente aperta. Tuttavia, anche in una situazione così difficile, nessuna università, nessuna scuola, nessun centro sanitario è stato chiuso, né i lavoratori hanno smesso di percepire i loro stipendi. Il presidente Nicolas Maduro ha fatto inoltre la magia di portare a milioni di famiglie scatole con prodotti alimentari di base, attraverso i “Comitati locali di fornitura e produzione” (CLAP), che finora hanno sconfitto il tentativo di piegare per fame la popolazione».
Detto questo, cosa si può fare per raggiungere una soluzione?
«Ribadisco: il modo migliore per aiutare il Venezuela a superare i suoi problemi economici è togliere la politica dell’embargo e la persecuzione finanziaria dall’estero. Questa politica equivale a cercare di estinguere un incendio con la benzina, invece che con l’acqua. Al di là della brutale demonizzazione della sua figura da parte dell’apparato di propaganda del capitalismo globale, il presidente Nicolás Maduro è una persona con una mente aperta e non dogmatica. Il clima di ostilità politica, economica e persino bellica ostacola le azioni del governo per superare i problemi del paese. In ogni caso, questa situazione porta anche nuove opportunità, come la diversificazione delle nostre relazioni economiche con altri centri dell’economia mondiale (Russia e Cina, in primis, ndr). Il pianeta, fortunatamente, è molto più ampio e promettente di quanto siano gli Stati Uniti e l’Unione Europea».
A livello internazionale suscita forti critiche se non scandalo il fatto di non permettere l’entrata in Venezuela degli aiuti umanitari. Che può dire al riguardo?
«Che non è vero. Chiunque desideri inviare in Venezuela ciò che viene definito “aiuto umanitario” può farlo, rispettando i protocolli internazionali e le leggi nazionali. In altri termini, se vuoi inviare una medicina o del cibo, puoi farlo purché nel rispetto dei controlli legali, doganali e sanitari. Certamente, prima di ricevere donazioni, il Venezuela preferisce pagare per medicine o cibo che viene dall’estero, come ha fatto ad esempio con la Russia. È una questione di dignità e sovranità. Senza sanzioni e senza persecuzione finanziaria non avrebbe avuto senso lo spettacolo creato attorno un aiuto umanitario che tale non è. Non è accettabile per il Venezuela, né per qualsiasi paese del mondo che sia calpestato il diritto internazionale e la sovranità nazionale per introdurre con la forza un cavallo di Troia, dietro al quale – come apertamente affermano gli Stati Uniti e i suoi lacchè – si prepara un intervento straniero nel mio paese». (A proposito d’informazione e fake news, uno scoop del New York Times ha stabilito che nella vicenda dei tre camion di aiuti umanitari bruciati lo scorso 23 febbraio, la responsabilità è da attribuire non alla polizia di Maduro, ma a uomini dell’opposizione, ndr).
Tra i lacchè di cui lei parla ci sono anche molti paesi europei.
«L’ho già detto: è un peccato che l’Europa si sia di nuovo accodata agli Stati Uniti. È già successo con Aznar, Blair e Bush in relazione all’Iraq. Un milione di morti dopo venne confermato che non erano mai esistite in Iraq le armi di distruzione di massa che servirono da pretesto per l’invasione. Ora Sánchez e altri leader europei vivono il loro “momento delle Azzorre” (riferimento al summit delle Azzorre del marzo 2003, ndr) con Trump di fronte al Venezuela. Stanno cedendo alla politica dell’estrema destra, sperando di ottenere qualche vantaggio politico».
La popolazione venezuelana con chi stà? Sui media si vedono grandi adunate dell’opposizione. Alcuni servizi della televisione italiana hanno mostrato Guaidó durante una messa in una chiesa di Caracas, con i presenti che si avvicinavano per complimentarsi e applaudirlo.
«Certo, nelle zone più ricche di Caracas e in altre città l’opposizione ha sempre avuto una base elettorale, che sicuramente si è espressa in quella messa che lei menziona. Sfortunatamente, i media internazionali non diffondono le grandi dimostrazioni che il chavismo ha svolto negli ultimi mesi, in particolare il 23 febbraio, quando l’avenida Urdaneta ha traboccato di gente da un’estremità all’altra. Il chavismo è sempre stato reso invisibile, sottostimato, disprezzato. Eppure, ancora oggi, rimane di gran lunga la prima forza politica in Venezuela individualmente considerata».
Qual è la soluzione per evitare una guerra civile?
«La guerra urbana è già stata provata dall’opposizione nel 2017, ma il popolo ha prevalso».
Teme allora un intervento militare, un’invasione del suo paese?
«La risposta già l’hanno data Trump e il suo fantoccio Guaidó, mettendo sul tavolo tutte le opzioni, inclusa la “opzione militare” contro il Venezuela. Una minaccia è di per sé un atto di violenza. Ad ogni modo, se questi signori decidessero di intraprendere l’avventura dell’invasione, non sarebbe una passeggiata. Piuttosto, si realizzerebbe la previsione di Che Guevara di “uno, due o tre Vietnam” in America Latina. Come si dice, non è lo stesso invocare il demonio che vederlo arrivare».
Paolo Moiola
Pubblicazione / date:
«il MANIFESTO», 6 marzo 2019; «TRENTINO», 14 marzo 2019; «ALTO ADIGE», 14 marzo 2019.